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Penelope e altre poesie

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Fortemente legata al mito forse per interiore necessità, forse per ascendenza d'origine, la scrittura della palermitana Cerniglia trova in quest'agile volumetto pieno e libero scioglimento dapprima in se stessa, in un'andatura quasi prosastica più che lirica (del lirico mantenendo però nodi e ricami di un dettato vicino a modalità diaristiche tipiche di un Canzoniere), e poi nella immedesimazione dell'autrice con la figura di Penelope, paradigma di donna sospesa tra promesse di nuova e definitiva compiutezza e mestizie e incertezze del presente. Ciò che le interessa maggiormente infatti nel ritratto della regalità ferita non è la determinazione o la vigilante scaltrezza di altre narrazioni ma il segno e il tempo della condizione irrisolta consegnata nella prova al rimestare delle cose e dell'anima ("la misera Penelope/ che ancora, ovunque, essendo ancora attende"). Condizione dunque la cui esemplarità viene affrontata e riproposta anche, per dirla con le parole di Pietro Civitareale nella prefazione, in parallelo al "problema della donna del nostro tempo e di un riconoscimento pieno della sua identità civile e sociale". Ed è dunque sul piano dell'identità che si gioca un'interrogazione che continuamente rincorre se stessa tra smentite e appelli del giorno, tra ricerche e distensioni entro una natura che si offre e si nega ai riconoscimenti a seconda delle proiezioni di uno stato d'animo mai quieto. Forma questa (a proposito di mito) che per le per modalità sceniche che vedono la protagonista muovere dallo spazio tutto raccolto della casa coniugale al suo esterno si apparenta a quella del teatro, dal teatro mutuando in più anche la densità monologale che è la vera ricchezza del libro. Qui la lingua si fa e si sa abile nello scandaglio di un femminile che nella mutilazione da colui che la determina grida in se stessa tutta la propria assenza, metà del mondo che nel tormento "guarda il suo resto tolto", Ulisse "sogno naufragato/ in una vita che non ha che il sogno". O l'attesa, come detto, come sovente in questi casi: eterna, infinita ombra di stagioni e giorni che uguali si ripetono in mortificazione di una maturità (di orizzonti, di sensi) per regressione acerba. Ed è l'acqua allora, quest'acqua così presente da guidare più di una volta il canto, il simbolo più evidente di detto processo. Acqua del ritorno, acqua di un sé che si sa infinito, atto all' accoglienza e alla perdita che nell'altro è destinato o sperato ritrovamento, fondamento sempre nuovo, in una valenza insieme fisica e mentale, a vincere nello sciabordio o nella piena della pioggia della vita, entro un"ampio golfo", i santuari spenti del tempo, "lo spento focolare". Perché altrimenti, nonostante la fierezza e la dignità delle opposizioni, l'esistenza rischia nel naufragio di non esser che "viva piaga", "estremo castigo". Questo almeno nell'avvertimento di Penelope nell'inerzia di un destino che rivelatosi avverso la destina alla misura di un apprendimento nuziale inconsueto (e più vicino per certi versi a quello del monaco) in cui tutto sembra condotto ad una "morte obliqua" e al dubbio costante sul proprio esserci ancora ("di me ombra che già più non sono") tra stasi del cuore ed erranza in un percorso che così tanto la somiglia al caro sposo nella sola possibile condivisione dell'anima: il vagare appunto "costretto il cuore nel morso dell'attesa", nella malinconica consapevolezza di esser condotti e decisi da un viaggio a lungo pallido e sconfitto "sogno dal solo Dio sognato"- ed in un riavvicinamento di ciò che il mare ha diviso che nel divino mistero forse si compirà solo nella morte. "Paesaggio andante, mutevole" ai propri umori, ad un tempo attrice e spettatrice di uno spazio e di un'azione esclusivamente interiore, la Penelope della Cerniglia si rivela così nuda desolazione di un avvertito niente che attende il suo tutto, di terreno il passo- ancora- che nell'affondo ne dipinga i contorni (qui eternamente esangui, inerti come le piante del giardino che sembrano anch'esse più non rispondere vivendo della medesima dolente pensosità della padrona in un'atmosfera riportata sempre ad una notte sospesa al ritorno del suo signore). Figura dunque a cui solo il molo è consono, "lo stare di vedetta, lo scrutare" verso "tutto l'altro che adempia" la meta, verso quel mare di fertilità o di morte così ben raffigurato nella carica di contrapposizione e angoscia evocata e descritta in uno dei brani iniziali della seconda parte del libro in cui sono racchiusi altri testi legati in buona parte al poemetto d'apertura ad un sentimento della vita, nell'identificazione con la natura stessa, avvertita come costretta entro una luce che solo tenuamente, per mantenere radici, tenta di fuoriuscire. Oltre che di caducità della condizione umana la poesia della Cerniglia si afferma allora come luogo della sua ritrosia nel "labirinto infecondo" che resiste, di una luce appunto spesso dispersa per mancata partecipazione o condivisione nel bisogno di esseri a cui è rivolta (di qui tra l'altro l'acuta prefigurazione del delitto di Caino in "La luce è sola"). Fedele al mito e ai temi eterni e cari della classicità greca e romana (la giovinezza e l'appassire delle promesse, le " gracili morti/ dei calpestati che tornano alla terra", la gestazione del procreare che nel canto si prolunga) è una poesia che alla distanza finisce col tendere alla preghiera nella preservazione dal male del mondo che viene dalla consapevolezza del senso di fratellanza, "creta impastata dello stesso dolore", che lega gli uomini fra loro. Autrice di lungo corso contando in poesia una dozzina di titoli (ed un paio di romanzi) ci regala con questi versi il proprio coraggioso e sofferto atto di fede nei confronti di una parola nelle intenzioni libera e pura nella rotondità della visione, specchio dapprima di serena bellezza per contemplazione delle cose prima della nominazione e poi di partecipato sgomento alla frammentazione dell'esistente che trova nella vicenda di Penelope il suo più evidente segno. Parola, in conclusione, che si risolve però meglio nello scioglimento interiore dei disagi che non nelle descrizioni e gli slanci di una natura di cui l'uomo sembra scontare comunque, anche nella pronuncia, una permanente irraggiungibilità.

 Franca Alaimo - 27/02/2015 17:34:00 [ leggi altri commenti di Franca Alaimo » ]

Conosco da anni la poeta (e amica) Rossella Cerniglia, una delle voci femminili più belle e profonde della letteratura siciliana e non solo, e per questo motivo mi ritrovo a leggere con una certa sorpresa la lunga recensione che Stefanoni ha dedicato al suo libro,dovendo constatare come egli sia riuscito a individuare i nuclei più profondi di una poesia, che pur nella sua naturale evoluzione attraverso gli anni, è sostanzialmente rimasta fedele a se stessa, adottando sin dal suo inizio le figure del mito (raccontate dai classici ma rielaborate dalla filosofia) come incarnazioni di uno stato esistenziale del tutto contemporaneo: così l’esilio, la disappartenenza, l’incompletezza, la solitudine. Che poi si riassumono in quell’atteggiamento dell’attesa, che Stefanoni ha messo molto bene in evidenza. Attesa come sguardo che cerca, come tensione verso altro che il "qui e l’ora": una tensione metafisica, insomma, che, secondo me, sostanzia tutta la scrittura poetica di Rossella e non trova soluzione se non nella bellezza delle immagini e dei suoni, nella sensibile analisi della propria interiorità, nell’armonia della costruzione che caratterizza ogni suo testo che compie quasi un giro rotatorio intorno a se stesso, cucendo insieme apertura e chiusura attraverso sicuri avanzamenti logico-emotivi. Ogni testo è, infatti, pur nell’andamento poematico della silloge, un prezioso hortus conclusus, bastevole a se stesso. Sono davvero contenta che la grande sensibilità e l’acuta intelligenza di Stefanoni abbiano incontrato e compreso la non facile poesia della Cerniglia, che sa bene quanto io l’ammiri.

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